sabato 28 dicembre 2019

La poesia non muore mai

Ogni volta che sto per decidere di parlare di poesia in classe, un dubbio inquina la chiarezza dei miei propositi. Il problema non è tanto che possa non piacere, anzi, questa all'inizio è una certezza (il bello è che proprio la poesia si incarica ogni volta di smentirla, vi ricordate La poesia di Chiara?). Il punto è che fra tutte le variegate cose che insegno, questa - per me - è quella più preziosa. Ma come qualcosa di delicato e irripetibile che si teme di sciupare esponendolo alla vista, ho timore a parlare di poesia in classe. Soprattutto ho sempre paura di allontanarli dall'unica possibilità che abbiamo di usare liberamente il linguaggio (vi pare poco?). Anche perchè è una libertà difficilmente raggiungibile, non è soltanto spontaneità, c'è tutto un percorso di conoscenza degli strumenti artigianali che fanno di una poesia una poesia. E poi ci vuole tempo, e poi mi dico che questa età non è quella giusta per capirla, e poi...e poi mi sbaglio. Per fortuna.
Insomma, anche sta volta ho assistito alla classica parabola per cui si inizia con lo sguardo allibito, mormorando qualche "ma perchè?", poi si procede verso il basso quando, affrontando gli aspetti metrici, salta fuori l'ormai classico "la poesia fa schifo" (aspetto già affrontato, se ben ricordate, La poesia di Aurora). Ma la curva si innalza poi d'improvviso quando, non si sa mai bene il perchè, qualcuno, di solito negli ultimi banchi (la poesia è sovversiva...), scrive (ma guarda te) una poesia! E a volte sono poesie contro la poesia...Insomma, eccole. Senza commento. (Di alcune non ricordo l'autore, appena torniamo a scuola rimedierò)


Il mare è angoscia
mi viene malinconia
il mare è vita
per questo volo via
Cassandra


La poesia può fallire,
disse il prof, un giorno
non ha senso, allora, sentire
e leggerne tante, è come un orlo
di un vestito che ti piace
e la oltrepassa e vai a finire
nel succo ace
del sarto che ti fa ammattire.
Ecco sapevo, questa frase mi ha inquinato
e infatti si vede il risultato
Sofia


Il mio cuore nero
come l'aria che c'è nel cielo
gli animali ormai morti
tutti gli alberi corti
la terra sta morendo
tutto è orrendo
Greta

Descrivere la poesia con una parola?
Io userei la noia.
Per me la poesia sul libro l'hanno messa
perchè hanno perso una scommessa.
Nella poesia tutto vale
anche l'italiano scritto male.
Parole strane i poeti inseriscono
che i vocabolari digitali ancora non capiscono.
Anonimo per ora


Buon non compleanno
per il giorno in cui non sei nato.
Solo un giorno sarà 
il tuo compleanno.
Può darsi sia oggi o domani,
ma avrai sempre un non compleanno.
Vai a prepararti una torta
per il tuo non compleanno
e festeggialo per bene.
Adesso vado perchè devo festeggiare
uno dei due.
Estel


Il mare profondo
come una tristezza da trovare
come la nostalgia
che se la perdi
trovi la libertà
Anonimo per ora


La poesia è come il canile
che con abbai
ti fa ammattire,
si continua quest'argomento
che mi fa cader dal letto:
mi sono alzata con un commento
e ho picchiato chi l'ha detto.
Ero nervosa per la poesia
perchè è noiosa e voglio andar via.
Anonimo per ora


La poesia è bella come una stella
è splendente come la tua mente.
E' sincera come la dea Era.
La poesia può essere noiosa ma è molto spassosa,
la poesia è vaga ma anche magra.
La poesia potesse parlare
si potrebbe arrabbiare.
Matilde


Gli esercizi sulla poesia non servono
nessuno sa quello che vuol dire il poeta
nessuno sa quello che lui prova.

Gli esercizi sulla poesia sono una perdita di tempo
perchè non sai mai se hai risposto 
giusto o sbagliato
Matteo


Per finire, per una volta mi prendo anch'io un po' di libertà. Ne scrivevo anch'io (ormai quindici anni fa...)

Mille volte dettero per morta la poesia
mentre tranquilla lei riproduceva.
La poesia la conoscevano quegli uomini,
ma sapevan quasi nulla
di lucertole in lotta
o della leggerezza di farfalla.
Tommaso

venerdì 20 dicembre 2019

La forma delle nuvole

"Ma allora che ci guadagni?" chiese il Piccolo Principe. "Ci guadagno" disse la volpe "il colore del grano"

Tutti a scuola si chiedono "a cosa serve?", "a cosa serve la grammatica??" (questa di solito con tono piagnucolante). Il problema non sta nella risposta. Il problema è nella domanda. Ormai per tutti noi è naturale pensare alle cose, ai pensieri o addirittura alle persone, in termini di servizi che ci possono rendere. Solo se ci serve va bene, altrimenti...a che serve? Ma è un modo di ragionare ristretto, che non può non condurre, oppure proprio nascere, da una sorta di diminuizione della nostra visione del mondo. Insomma, va bene, non la faccio lunga, volevo solo trionfalmente affermare che conoscere le nuvole non serve a nulla (spesso nemmeno a prevedere il tempo). Che liberazione: non serve a nulla! La nuvola esiste per conto suo, e la nostra passione per lei non serve proprio a niente. Infatti, ha proprio ragione S. Audeguy nel suo "La teoria delle nuvole" quando dice che

"Bisogna essere un po' stupidi per interessarsi alle nuvole, ed esserlo con una sorta di ostinazione irragionevole"

Allora perchè? perchè farlo a scuola? perchè dedicare tante ore scolastiche alle nuvole? Per rispondere basterebbe parafrasare il Piccolo Principe

"Ma allora che ci guadagniamo?" chiesero gli alunni. "Ci guadagnate" disse il prof  "la forma delle nuvole"

Qualcuno potrà non crederci. Potrei raccontarvi di alunni che dopo anni mi inviano foto per chiedermi che genere di nuvole hanno fotografato, o di altri che quest'anno mi fermavano prima di entrare a scuola per parlare delle nuvole viste il giorno prima, o di quello che viene in bici e saliva più in su della scuola (siamo in collina) per trovare il punto adatto per scattare una foto. Ma ho anche una prova fotografica. Un alunno ha guardato il cielo, l'ha fotografato e poi a scuola mi ha supplicato di accendere lo smartphone per farmela vedere


Onde di Kelvin Helmholtz (Fabio B.)
Non vi dice niente? Ovvio, nessuno vi ha fatto guadagnare la forma delle nuvole 😃 ......

E così la classe 3^A ha iniziato, ormai un mese fa, a capire cos'è l'atmosfera e come è fatta

di cosa è fatta l'aria 

come si formano le nuvole


e quali sono i generi delle nuvole

Anche la rinomata prof. Contin ci ha aiutato e abbiamo studiato in inglese la storia di Luke Howard, l'inventore della classificazione scientifica delle nuvole. Intanto, sempre grazie alla prof., abbiamo risposto in inglese alla mail di un certo Ian...

Nel frattempo, infatti, si è scatenata la corsa alle foto, anche perchè il prof, orgoglioso membro n.14276 della Cloud Appreciation Society, aveva promesso di spedirle e aveva prefigurato la possibilità che fossero pubblicate. Per fortuna, il gentilissimo Ian, Photo Galley Editor, ha esaudito i nostri desideri....eccole
La foto di Riccardo , La foto di Giulia D. L. , La foto di Nemanja , La foto di Giulia B. , e infine il Lamantino di Aurora (riuscite a vederlo?)

Ma non finisce mica qui. Oltre ad ascoltare e fotografare, quelli di 3^A si sono improvvisati professori e hanno spiegato a genitori e ragazzi tutto quanto fatto sulle nuvole, in occasione della nostra giornata di Scuola Aperta. Per finire, abbiamo accolto la classe 5^B della Scuola Primaria di Buttrio e pure loro si sono sorbiti una lezione (un'oretta sola...), con tanto di quiz finale (sono stati molto bravi!!)
Il prof sperava nevicasse...ma non è accaduto (come al solito per la pianura friulana)

Avevamo anche il fantastico libro della Cloud Appreciation Society "A Cloud a Day"!


Tipico entusiasmo degli alunni per il quiz sulle nuvole (per la cronaca: erano cirrocumuli)

Chiudo questo post parlando bene della mia classe. Per una volta, ci vuole! All'inizio non tutti erano convinti di quanto stavamo facendo, ma poi ho visto crescere l'interesse: una marea di foto, persone che mi fermavano per i corridoi per dirmi che nuvola avevano visto e per lanciarsi in complicate descrizioni, alunni che in fondo a Scuola aperta c'hanno preso gusto a spiegare tutto agli adulti e, infine, altri che con i bambini delle primarie hanno sfoderato insospettate doti da insegnante. Bravi! Insomma, hanno fatto tornare la passione anche a me, che ormai da anni mi dedico molto più al birdwatching che alle nuvole. Così, pochi giorni fa, mentre un mio amico guardava col cannocchiale una spiaggia deserta e popolata da pochi limicoli, io non mi sono lasciato sfuggire questo parelio

E' sfuocata, lo so. Anche i prof sbagliano. Raramente
Ragazzi di 3^A, cercate anche voi, adesso che siete in vacanza, questi effetti ottici atmosferici...pareli, aloni e altro...ne abbiamo parlato! (ma coprite sempre il sole, mi raccomando!!). Se vi interessa sapere cosa e dove guardare consultate questo sito.

Questo post è stato ospitato su una pagina della mitica Cloud Appreciation Society!! CLICCATE!!

mercoledì 9 ottobre 2019

Cosa pensa un ragazzo di terza media?

Non vi pare un’ottima domanda? Ci sono domande semplicissime che non facciamo mai. Una di queste è Cosa pensi? 
La scuola invece ha sempre bisogno di chiedere cosa sai? come se trovasse un senso alla sua esistenza solo nella risposta a quella domanda. A volte, semplicemente, il senso è già tutto nella domanda. E le domande Cosa pensi? e anche Cosa provi? sono fra quelle che possono aprire mondi, strade, possibilità. Basterebbe chiedere, e ascoltare. Anche ascoltare è una di quelle attività che la scuola, leggi “gli insegnanti”, dovrebbe esercitare con più sensibilità. Si ascolta certo, ma lo si fa, come sempre, per giudicare: significa che si ascolta la risposta molto più della persona che risponde. Ascoltare e basta è molto più difficile, la scuola invece vuole ascoltare per valutare (è più forte di lei…).
In queste prime settimane di scuola i ragazzi della terza A hanno letto alcuni brani dell’antologia e hanno risposto solo alle domande che li obbligavano a parlare un po' di loro stessi. Non è stato sempre facile, chi mai vorrebbe, ad esempio, esporre in pubblico i propri innamoramenti? Oltre a scrivere, abbiamo anche parlato. A volte mi sono trovato nella difficile situazione di essere un genitore, e al tempo stesso un professore che sentiva un gruppo di adolescenti parlare dei genitori. Il padre che è in me è stato più volte tentato di difendere i genitori, ma ho cercato di ascoltare e basta, di non giudicare. Ed è quello che chiedo anche a voi lettori, siate o meno dei genitori. Proviamo a leggere come se li ascoltassimo in silenzio. Potremmo trovare una profondità che ci obbligherà a pensare, qualche ingenuità che ci farà sorridere, ma anche una sincerità o un’intuizione di cui non li credevamo capaci.
Io non ho aggiunto nulla, ho solo selezionato; e gli ho chiesto il permesso di pubblicare.


Prima delle loro parole, eccovi le loro risposte ad un questionario che abbiamo trovato nell’antologia. Ringrazio Giulia C. e Chiara Z. per aver raccolto i dati e creato i grafici (con lo zampino provvidenziale di una mamma…). 
[La somma è maggiore del 100% perchè il test prevedeva la possibilità di selezionare più di una risposta.]

HAI L'IMPRESSIONE CHE I TUOI GENITORI TI CONSIDERINO


HAI L'IMPRESSIONE CHE I TUOI GENITORI
















NEI CONFLITTI QUALE COMPORTAMENTO DEI TUOI GENITORI TI ESASPERA DI PIU'?
















I PRINCIPALI MOTIVI DI DISACCORDO COI TUOI GENITORI SONO...



Famiglia
Ogni tanto, quando non voglio svegliarmi presto, mi dicono che loro si svegliavano prestissimo e andavano a scuola a piedi… Io vorrei girare da solo/a a piedi ma non mi lasciano perché hanno paura, ma allora perchè mi dicono che alla loro età andavano a scuola da soli, come se volessero che lo facessi anche io e poi non mi lasciano?

Quando sbaglio o faccio qualcosa di stupido non serve gridare sempre, me lo potrebbero fare presente che ho sbagliato

Raccontavo sempre tutto ai miei eppure ero convinto/a che non capissero i problemi che avevo. Probabilmente per loro erano solo cose da bambini che sarebbero passate in poco tempo. Invece no. Mi sono portato/a dietro per tanto tempo certe cose e non le ho mai dette a nessuno proprio per paura che potessero risultare inutili. Così ho cominciato a chiudermi sempre di più e ora non racconto più come mi sento, le mie paure ecc. Preferisco dire che va tutto bene senza dover spiegare cosa c’è che non va anche se è semplicemente una giornata in cui non mi sento al massimo senza un motivo preciso

Vorrei che smettessero di dirmi in continuazione di mettere la giacca anche se ho caldo

Sì c’è una cosa che vorrei cambiare nei miei genitori perché si arrabbiano anche per cose non importanti

Potessi cambiare qualcosa dei miei genitori cambierei la fiducia che hanno verso di me (vorrei che si fidassero di più di me)

Quando ero piccolo/a vedevo i miei genitori come una sottospecie di supereroi, che mi facevano divertire e mi aiutavano qualunque cosa facessi

Mi tratta sempre come se stessi solo sbagliando tutto

Emozioni
Certi giorni mi capita di essere triste senza un motivo preciso

Se non avessimo inventato l’amicizia saremmo chiusi nella nostra stanza a piangere

Certe volte maschero il dolore prendendomela con chiunque e facendo finta di essere felice per non spiegare cos’ho.

Sull’adolescenza…
Almeno per me sono più le complicazioni emotive e psicologiche che le cose meravigliose! Ad esempio, in questa fase della nostra crescita, cominciamo a distaccarci dalla nostra famiglia, tendiamo a stare da soli perché non abbiamo argomenti o per utilizzare il telefono…e lo so perché io stesso/a sono così…, cominciamo a cambiare atteggiamento: ci arrabbiamo più facilmente, rispondiamo male a tutti e tendiamo a essere più riservati e arroganti e a volte si cominciano a prendere strade sbagliate.

Sì mi è capitato più volte di aiutare qualcuno di egoista, presuntuoso e approfittatore…ma io aiuto chiunque, anche volentieri perché vorrei far capire che per gli altri ci sarò sempre, sia per i gentili che per gli arroganti, non mi interessa del loro comportamento, mi interessa solo fare del bene.

L’amore
Ogni giorno aspetto con ansia il giorno in cui lo/la vedrò. Quando poi ci incontriamo il mio cuore inizia a battere fortissimo. Certe volte mi capita di rimanere a fissarlo/a, poi lei/lui si gira, mi nota e mi sorride: a questo punto io “sclero”.

Non ho mai avuto coraggio di dirlo perché avevo paura della risposta

Non erano delle cotte molto serie, anzi, fino all’anno scorso era un continuo innamorarmi del primo che mi passava davanti

Sono riuscito/a a dirlo, sennò non mi sarei fidanzato/a

Sono riuscito/a a dirglielo ma troppo tardi. Quando ho avuto il coraggio di farlo ho scoperto che era innamorato/a di un altro/a

La rabbia
Per me la rabbia è uno sfogo e un rimpianto, perché dopo essersi arrabbiati si prova rimpianto.

Sento una grande forza dentro di me che vorrei sfogare su qualcuno

Per me la rabbia è un’emozione che dentro la mia testa dice: “dai un pugno a qualcosa”

Io mi arrabbio mentalmente e non fisicamente

Per me la rabbia è una parte del corpo che non resiste più alla cattiveria

Dio
Più che credere in Dio credo nella vita dopo la morte, qualsiasi cosa accada

No, non credo in Dio, sono politeista, credo in più Dei

Sì credo in Dio. Non so bene perché ma credo in Dio

Non ci credo perché credo di più alla scienza

Credo in Dio perché quando sono in difficoltà prego che si aggiusti tutto

Cosa sanno i bambini più degli adulti?
Sanno di poter accettare chiunque senza giudizi negativi

Secondo me quando si è bambini si crede di più nelle cose e quando si diventa adulti si cambia del tutto ed è brutto

Sono più liberi

Sanno di più su come lasciarsi andare

Secondo me i bambini sono più sinceri


Per concludere, malgrado io venga tirato in ballo, riporto questa risposta, anche perchè l'autore ha chiesto espressamente "quando la mette sul blog?"

Come ti immagini fra 20 anni?
Mi immagino come il prof. Zamò e anche un po’ come il prof. Candoni     Un mix esplosivo😁😀

"Lo dico con un senso di amarezza, per dimostrare come i muri della classe e gli edifici scolastici, fatti come prigioni, restringano l'apertura mentale degli insegnanti e impediscano di vedere gli elementi essenziali dell'educazione. Il loro lavoro prende in considerazione solo la parte del bambino che sta al di sopra del collo; e necessariamente, la parte vitale del bambino, quella emotiva, rimane per costoro territorio straniero." Alexander S. Neill

mercoledì 2 ottobre 2019

Acrostici in 1A

Un'ora di supplenza in 1A... e decido subito di spoilerare (usiamo questo gergo giovanile) una parte del programma di storia... Con l'aiuto di Riccardo Novello di 3A, che per l'occasione si trasforma in prof, parliamo della caduta dell'Impero Romano d'Occidente, di Barbari e di Unni. Poi ci stufiamo e passiamo ad altro (miracolo delle ore di supplenza). Quindi via con gli acrostici. Cosa sono? Semplice, basta scrivere il proprio nome (o cognome) in verticale, e usare ogni lettera come lettera iniziale di una parola per creare una frase.
Questa è l'unica regola, se poi la frase appare strana o "insensata" non importa, anzi, magari fa ridere proprio per quello!
Dopo qualche esitazione iniziale la 1A ha sfoderato tutta la sua fantasia! BRAVI! Ecco i risultati in ordine sparso


Dai
Erbivoro
Non
Ingoiare
Salsicce
Enormi

Bulldog
Eleganti
Rimasti
Tosati
Osservanti
Sempre
Sobri
Irresistibili

Mele
Acquatiche
Tutte
Tonde

Ovali

Non 
Incollare
Con 
Orgoglio
Le 
Etichette

Stefano
Taglia
Elica
Felice
Ai
Nani
Obesi

Eliminando 
Monti
Marini
Annegò

Giovane 
Immobile 
Urta
L'ancora
Inaspettatamente
Ancora

Mangiando
Erbe
Nell'
Igloo
Segretamente

Mucca
Allegra
Ruvida
Tosata
In 
Nuvole 
Orientali

Saremo
Arrivati
Muovendo
Urlando
E
Lanciando

Francesco 
Rode
A
Natale
Con 
Ernesto
Stando
Con 
Orso

Rare 
Idee
Create
Calciando
Aerei
Rotondi
Dopo
Orso

Gatti
Affamati
Sopra
Pesci
Annaffiati
Ricoperti
Inconsciamente

Fare 
Le 
Arance
Velocemente
In 
Oslo

Farsi 
Abbandonare
Bene
In 
Ospedale
Lanciando
Ambulanze

Nota di merito finale a Riccardo di 3A che con questo acrostico (forse dedicato a se stesso?) dimostra di essere pronto per l'esame

Non 
Oziare
Vendendo
Erbe
Lungo 
L'
Oceano


giovedì 26 settembre 2019

A volte riFornano...

Anche quest'anno come da tradizione, le classi prime della Scuola Media di Buttrio sono andate a Forni di Sopra per una tre giorni di intense attività. Chi vi scrive non li ha accompagnati, ma mi giungono ad ora notizie confortanti dalle montagne friulane. Vediamo...

Intanto, malgrado la pioggia di ieri, i nostri sono senz'altro scesi dalla corriera


...e con tutta probabilità devono essere entrati in albergo a scaricare i bagagli, ma dev'essere stato un breve momento perchè le attività incalzavano. Così ne troviamo alcuni al Castello di Saquidic

L'atmosfera uggiosa pare aggiungere qualcosa al mistero del castello (lo dico io seduto a casa sul divano...)

e altri invece sono schierati come una squadra di soccorso, pronti per affrontare l'Adventure Park


La pioggia quindi non sembra proprio aver fermato i nostri e il destino riconosce la loro tenacia e oggi gli regala un cielo secco e  limpido 


Le piogge però hanno ingrossato i fiumi e per l'escursione nel Parco delle Dolomiti è necessaria una catena umana per attraversare le impetuose acque di un torrente (...)


Per evitare che le truppe si demoralizzino, la guida sembra minacciarle con delle corna di capriolo...dico bene??


Tanto per rendere più concreta la minaccia, ecco delle impronte... (cervo?...)


Proprio mentre scrivo, arrivano immagini del pomeriggio...
Qui pare che da una postazione di caccia sia stato avvistato un branco di ciclisti




In questa foto aerea, un altro gruppo si prepara per una misteriosa attività (noto una mazza di legno...)


E qui si torna dalla visita all'impianto di teleriscaldamento a biomassa. Oppure dal castello di Saquidic?


Ma chiuderei con questa: alcune prof, infrangendo senza remore il regolamento scolastico, s'intrattengono con un abitante locale dal dubbio copricapo (sarà il collegio docenti a stabilire la sanzione).




Se volete vedere come è andata gli scorsi anni potete sbirciare qui
Giorno 1    Giorno 2     Giorno 3

Oppure, se volete gettare il cuore oltre l'ostacolo e scoprire la settimana bianca delle seconde, cliccate qui


Benvenute prime...la bloggoteca è anche vostra!

Brevissimo post per iniziare l'anno salutando le nuove classi prime. Intanto, a conforto dei nuovi genitori che piangono l'assenza dei figli (non solo sono in una nuova scuola, ma sono pure già partiti per dormire fuori la notte..), questa sera, se tutto va bene, potrò postare alcune foto dei gitanti, grazie ai nostri inviati...
Ma qui volevo ricordare agli alunni delle prime (anche se forse già lo sanno) che la scuola dall'anno scorso si è dotata di una "biblioteca armadio" (...), fornita di titoli un po' più accattivanti di quelli solitamente presenti nelle biblioteche scolastiche. Trovate tutte le istruzioni, ma soprattutto TUTTE LE COPERTINE DEI LIBRI, cliccando qui.
A stasera! Per il post fotografico sui giorni verdi di Forni!!

P.S. Approfitto per ricordare che chiunque volesse donare dei libri alla scuola, è il benvenuto (in cambio possiamo offrire una citazione su questo blog, il che non equivale esattamente alla gloria, ma è già qualcosa...)

Blog Lamiaclasse - Scuola Media Buttrio -  prof. Tommaso Zamò

giovedì 22 agosto 2019

Ho ucciso la scuola...

...e stiamo cercando di rianimarla


Esattamente un anno fa, seduto nello stesso luogo (ammesso che i luoghi non cambino), scrivevo il primo post di questo blog. Ricordo bene quel momento: un po’ di ingenuità e un po’ di entusiasmo. L’anno scolastico appena passato è stato il migliore che io ricordi. Mai così tante avventure, imprevisti, nuove conoscenze. Tanto che a ripensarci mi nasce la voglia di chiarire (a me prima di tutto) come sia accaduto. Si potrà pensare ad una attenta programmazione, obiettivi chiari, fare energico e decisivo; ma non è nulla di tutto ciò. Già in quel primo post, incredibilmente (ma poi non tanto), c’è in una frase tutto quello che vorrei cercare di chiarire in questo momento: so che dobbiamo smetterla di aspettarci che tutto sia già bello e pronto...le cose belle vanno costruite e scoperte assieme.
Le letture estive, una in particolare, mi hanno rafforzato in questa convinzione, che allora era poco più che un’intuizione. Dunque, contro la programmazione, certo, ma vorrei spiegarmi. Non voglio qui scrivere il manifesto dell’ingenuità didattica, del tipo “entriamo in classe e vediamo cosa succede”, voglio invece chiarire a me stesso la necessità estrema di demolire alcune certezze scolastiche, senza ricostruirne altre, beninteso. Da quando insegno, a intervalli più o meno regolari, ho da sempre provato una sorta di disagio, quasi di disgusto, una sensazione fisica e, proprio perché fisica, espressione di un bisogno (mio) reale, impossibile alla lunga da scartare o dimenticare, pena la perdita del senso di quello che faccio. Cos’è questa sensazione? O meglio da dove arriva? Io sento chiaramente, sarò in questo predisposto, non tanto l’inutilità, che sarebbe ben poca cosa, ma proprio il carattere osceno, perché meccanico e disanimato, di tante pratiche scolastiche. Tutti lo sanno. La scuola è morta, e anche io ho contribuito ad ucciderla, sia chiaro (da qui il disgusto). La scuola muore ogni volta che ripete tecniche e linguaggi della dis-animazione che è la cifra dell’attualità. Non c’è salvezza, non si creda salvo chi parla di pace e tolleranza, e soprattutto chi parla troppo, non è questione di contenuti. La scuola muore ogni volta che pensa allo studente come un mezzo per creare il fine che è l’adulto; ogni volta che crede di preparare alla vita, non capendo che la scuola dovrebbe essere la vita.

“E’ tempo di invertire la tendenza destrumentalizzando il rapporto fra educazione e conoscenza; preoccupandosi meno del futuro dei propri studenti e più della qualità del presente e del tempo ora, in quella situazione in cui un incontro con quello studente che viene a scuola può o non può avvenire”
Attesi imprevisti – Paolo Perticari

La scuola muore ogni volta che un insegnante crede di trasmettere dei contenuti e imposta la sua professione come una trasmissione da/a, secondo la nota e antica metafora dell’imbuto (io non ho ancora trovato una feritoia nel cranio degli alunni dove infilare con precisione questo imbuto che servirebbe a riversare la nostra sapienza…). Ma nemmeno la metafora del giardinaggio, che una volta sposavo e assaporavo come vera, non mi convince più, almeno non completamente. L’alunno come pianta da innaffiare, da disporre in un terreno adatto, da riparare dal sole per garantirgli il suo sviluppo. Certo, qui spirano venti più liberi, ma in fondo la vita della pianta è nelle mani del giardiniere, la sua forma nelle sue forbici…Comunque sia, sono metafore.
La scuola è morta. Tutti lo percepiscono, lo hanno vissuto, forse alcuni lo sanno davvero, ma pochi lo dicono (bisognerebbe urlarlo). Non si dice, perché dirlo imporrebbe una ricostruzione non solo della scuola, ma proprio del nostro essere nel mondo. Perché la morte della scuola è un aspetto di un problema ben più ampio, di una questione che può essere affrontata solo filosoficamente (non vi spaventi l’idea, parlo di filosofia vera, che equivale a dire parlo della vita).

“La medicina fa ammalare, i trasporti immobilizzano, la comunicazione fa sì che non si riesca a mettere nulla in comune, la scuola istupidisce. Le troppe informazioni disorientano; l’accumulo di consumi personalizzati fa perdere il tratto caratteristico della personalità individuale; l’accelerazione del ritmo della vita ammazza il tempo e i tempi di ognuno; nessuno ha più tempo per nessuno”
Attesi imprevisti – Paolo Perticari


E io aggiungerei che l’iperconnessione genera solitudine, non quella fondamentale del raccoglimento, ma quella angosciata dal desiderio di relazione.
Sia chiaro, proprio perché ho a cuore la scuola voglio parlare chiaramente della sua morte. Perché in tutto questo disastro del contemporaneo, vorrei una scuola capace di essere eretica, folle, rivoluzionaria, perché solo così può riacquistare un senso. Non c’è alcun tratto politico (nell’accezione banale del termine) nel mio discorso. Chiunque senta le parole di Perticari come vere, è chiamato a chiedersi cosa sta facendo, in qualunque ambito.
Allora ecco perché scrivo contro la programmazione (non in assoluto, ma contro la programmazione come viene normalmente intesa a scuola). Quando va bene, si tratta di compilare e dimenticare. Quando va male, ossia quando si crede eccessivamente nella possibilità di poter programmare, il programma si trasforma in un idolo a cui sacrificare ogni cosa, in primo luogo il tempo: accade così che invece di dedicare il tempo agli alunni lo si dedichi al programma nella convinzione che i due elementi siano sovrapponibili. Ma c’è altro, ed è più importante. L’ansia di programmare, di prevedere, di prestabilire, non può che sottrarci umanità, perché sottrae la possibilità, intendo lo spazio temporale, per accettare l’imprevisto, per accogliere l’errore, per ascoltare chi ci sta davanti. Ecco quindi un proposito (non un programma…) per l’anno che arriva: abbiamo tempo! Perché solo nella consapevolezza di avere tempo può accadere qualcosa di utile in aula. Cos’è utile, chiederete. Beh, al contrario di ciò che si pensa è non solo utile ma fondamentale la conversazione: detta così, la vedo qui scritta, sembra una banalità, ma in classe abbiamo così paura di conversare (perché non c’è tempo...o perché abbiamo paura) che non sappiamo più come si fa, ma soprattutto non capiamo più a cosa possa servire (qui la scuola muore, qui ripete l’orrido del disastro della modernità). Ogni volta che giudichiamo (come banali, scorrette, fuori argomento ecc.) le idee espresse dai nostri alunni in quei brevi momenti di conversazione che permettiamo, stiamo uccidendo la possibilità che accada qualcosa. Altro proposito: imparare con gli alunni a conversare, ad ascoltare senza giudicare, ad attendere.

“I beni più preziosi non devono essere cercati, ma attesi” Simone Weil

“L’insegnamento, come l’apprendimento, non accade nell’andare di corsa, semmai nel rallentare, nella lentezza, talvolta nella fatica che caratterizza questo rallentamento e il suo ripetersi nel tempo”
Attesi imprevisti – Paolo Perticari

I libri più intensi sono quelli che ti descrivono senza conoscerti. Ed è quello che mi è accaduto con il testo del filosofo Perticari. Non so spiegarvi, ma so dirvi però che quando leggete qualcosa che vi descrive, la sensazione è prima di tutto corporea, non intellettuale. Una sorta di liberazione fisica nel leggere pagine che si scagliano, ma sempre con una sorta di gentilezza, contro la possibilità e la necessità di un approccio scientifico ai temi dell’educazione e della didattica. E’ ora di finirla con l’idea di poter quantificare e prevedere e giudicare tutto. Perché ogni qual volta si applica questo principio all’educazione, ovvero ad esseri umani nel pieno del loro sviluppo, non si fa altro che ucciderne l’umanità. Non voglio usare toni apocalittici per sconvolgere, questo è l’unico modo che possiedo per spiegarmi. L’umanità, il senso dell’umanità, risiede nel mistero, in quello spazio eternamente vuoto che il tempo della vita di ogni singolo uomo ha il compito di costruire. Se pensiamo che ogni cosa che accade nella relazione educativa sia misurabile, stiamo misurando quello spazio, il che equivale a dire che lo stiamo riducendo, stiamo iniziando esattamente il disastro della contemporaneità, cioè la riduzione della dimensione verticale dell’uomo, per appiattirlo, per renderlo mezzo e non più fine.

“Più sono radicate certe idee di programma scolastico e di scientificità (e anche le idee di più alto profilo contengono questo rischio), più possono portare alla non-accettazione della sorpresa. In questo caso ogni imprevisto, ogni sorpresa, ogni scarto, è considerato un errore […]. La possibilità di sbagliare, invece, è un indicatore della qualità educativa di un’esperienza. Se non si può sbagliare vuol dire che c’è qualcosa che non va.”
Attesi imprevisti – Paolo Perticari

Ecco allora un altro piccolo proposito: amare l’errore. Perché in esso c’è un percorso cognitivo, perché l’errore è una finestra aperta sulla stanza che ci interessa di più. Ogni volta che lo sottovalutiamo in maniera sbrigativa o lo condanniamo, o peggio lo stigmatizziamo, ci stiamo impedendo la possibilità di capire come ragiona quell’alunno.

La prospettiva andrebbe quindi rovesciata (oggi la forza di un’idea sta nel suo potenziale eretico): non sono gli alunni i primi a dover stare attenti, siamo noi. L’attenzione è parte integrante della capacità di attendere, ed è quella facoltà fondamentale che permette di aprire uno spazio in cui qualcosa possa davvero accadere. Non si tratta dell’attenzione intesa come sforzo, come ricerca, come tentativo di captare, no, tutt’altro, l’attenzione più feconda è un’attesa attiva (simile in sostanza alla preghiera). Ma perché il docente ha bisogno estremo di questa attenzione? Per cogliere l’altro, per capirlo, per accoglierlo, per imparare da lui (altro ribaltamento). Come potrà mai accadere tutto ciò se siamo impegnati soltanto a concludere il programma? Fosse anche quello che avevamo programmato per quella singola ora. Capite? Il miracolo garantito dall’attenzione

“è la riconciliazione non precipitosa con quello che succede davvero all’interno dell’esperienza in cui viviamo durante il suo ripetersi nel tempo. Il miracolo di cui si parla non potrà mai essere programmato. E’ piuttosto un atteso imprevisto
Attesi imprevisti – Paolo Perticari

Mi fermo e rileggo. Sono andato veloce, concitato come al solito quando parlo di qualcosa che mi appassiona. Non importa, ho scritto per me. Tanto altro ci sarebbe. Ma insomma, forse adesso capite perché in quella frase scritta ingenuamente un anno fa c’era già tutto questo mio intendimento: so che dobbiamo smetterla di aspettarci che tutto sia già bello e pronto...le cose belle vanno costruite e scoperte assieme.
Ora abbiamo di fronte un nuovo anno scolastico (tutto vuoto!! evviva!!). Non ho programmi particolari, ho tante idee e qualche convinzione, e sono pronto a cambiarle. Sono pronto anche a rischiare. C’è un senso da ritrovare. C’è un intero quaderno da riempire. 

“Mi spaventa questa didattica attuale propugnata in tutte le salse sulle riviste patinate dirette dai più autorevoli pedagogisti per insegnanti che sanno dire di tutto, anche di ecologia, anche della necessità di un nuovo impegno, anche del disastro, pur di non cambiare mai i comportamenti effettivi di fronte alle situazioni di disagio che si presentano, pur di non arrivare a chiamare in causa il proprio sguardo su quel che succede. Mi sembra l’inizio di un essere umano incapace di tornare a essere sé stesso quando le circostanze lo mettono di fronte a una persona che è stata come lui vittima della sorte. Allora non si tratta di dire se è meglio la programmazione per obiettivi o la programmazione individualizzata; ma di trovare un senso in quello che si sta facendo, facendosi sorprendere da quello che si sta facendo, nel programma che si è costruito, e ancor di più in quel processo di apprendimento/insegnamento che si sta vivendo”
Attesi imprevisti – Paolo Perticari

sabato 1 giugno 2019

Testo libero - Giulia B.


THE SNOW KILLER

In una gelida mattinata d'inverno, come tante altre, a Stoccolma venne ritrovata l'ennesima vittima.
Sul posto era già arrivato l'ispettore Harry, il miglior investigatore di tutta la città, seguito dalla polizia.
Il cadavere rinvenuto apparteneva ad una donna e, accanto a lei, un pupazzo di neve con la sua testa; gli arti della donna erano stati tagliati e messi tutti vicini sulla gelida neve. Era una ragazza giovane, non molto alta e con degli occhi azzurro intenso. L'ispettore Harry cominciò a indagare sulla scena del crimine e, a pochi passi dalla vittima, c'era un borsone con dentro dei vestiti, una bottiglia d'acqua e delle scarpe: probabilmente apparteneva alla donna.
Secondo Harry, la vittima stava tornando a casa e l'assassino la stava seguendo, finché la donna, accorgendosi che non era sola, provò a scappare, ma invano.
Per l'ispettore Harry, non era la prima vittima trovata morta tagliata a pezzi e con un pupazzo di neve nei pressi dell'omicidio che guardava sempre in direzione dello stesso; infatti nelle ultime due settimane si erano già verificati dieci casi simili: tutte le vittime erano donne, con dei figli e single. Venne scoperto che anche l'ultima vittima ritrovata era una di loro. L'assassino, però, non lasciava tracce, nemmeno una piccola parte di impronta digitale, niente, sembrava un fantasma: era impossibile da trovare.
Nessuno l'aveva visto né entrare, né uscire dalle case delle vittime; i poliziotti non sapevano che fare, i sospettati interrogati erano tutti puliti, persone normali di cui non aver paura.
Quella notte, Harry non riuscì ad addormentarsi, così prese il computer, si sedette in cucina, e decise di approfondire le ricerche.
L'unica donna single e con un figlio rimasta a Stoccolma era Greta Homberg; abitava in una vecchia casa in mezzo al nulla, in compagnia di sua figlia Rosie.
L'ispettore volle andare a controllare, magari avrebbe previsto l'omicidio, così, prese l'auto e si diresse verso la vecchia casa.
Parcheggiò non molto lontano dall'abitazione; non sapeva se bussare, erano le 5 del mattino ed era buio pesto, ma notò che nella baracca vicino alla casa c'era una luce accesa, così, deciso, battè per tre volte sulla piccola porticina. Nessuna risposta. Silenzio assoluto. A rompere quella quiete fu il pianto di un neonato.
Di colpo, Harry tirò un calcio alla porta, sfondandola. In mezzo a quella stanza poco illuminata c'era una culla con dentro una bambina avvolta in fasce, e sugli occhi un canovaccio. Ai piedi della culla c'era una tazza a pezzi. L'ispettore Harry prese la pistola e si avviò verso il giardino: aveva sentito un rumore. Notò che sulla neve non c'erano solo le sue impronte. Accanto ad un macabro pozzo si trovava lo stesso identico pupazzo di neve delle volte precedenti. Si affacciò sul pozzo e vide una cosa orripilante: la testa della donna mozzata galleggiava nell'acqua tinta di rosso. Il corpo, però, non c'era. Harry decise di non chiamare la polizia, almeno per il momento. Incominciò a rovistare in giro per la casa in cerca del corpo. Non trovò alcun indizio, neppure la minima traccia di sangue: niente.
Si ricordò, poi, del neonato nella baracca e decise di andarlo a prendere: non poteva stare là, con quel freddo e tutto da solo.
Quando lo prese in braccio notò che sotto il lenzuolo c'era qualcosa, sembrava un cuscino. Ma non era così, non era per niente un cuscino...
L'ispettore appoggiò il bambino e scostò cautamente la coperta: sotto c'erano dei sacchetti neri; sollevato, Harry ne prese uno e lo aprì, dentro c'era un pezzo di braccio: aveva ritrovato il corpo della donna.
Subito dopo portò il bambino in casa, scrisse un biglietto per la polizia, salì in auto e chiamò il suo capo per avvisarlo del ritrovamento.
Da molto tempo, l'ispettore stava male, aveva cominciato a bere e non prendeva seriamente il suo lavoro: tutto per colpa di sua moglie. Se n'era andata con suo figlio in America e avevano divorziato.
Il capo di Harry decise di non affidargli nessun caso finchè non si fosse messo a posto.
All'ispettore, un giorno, arrivò una telefonata inaspettata: era sua moglie, voleva tornare a Stoccolma e ricominciare tutto da capo; Harry si sentiva rinato.
Decise, quindi, di riprendere il pieno controllo della sua vita: uscì di casa, e si diresse con passo svelto dal suo capo. Proprio quella mattina era stato rinvenuto il cadavere di un uomo: apparentemente un suicidio. Il caso venne affidato ad Harry. Salì subito in auto e si diresse verso il luogo del delitto. Appena arrivato lo accolse il capo della polizia che gli spiegò l'accaduto:
“Jagged Jones, 35 anni, morto sul colpo per arma da fuoco. L'abbiamo ritrovato chiuso a chiave nel suo garage, seduto su una sedia con un fucile in mano e un colpo sparato in testa. Al primo impatto abbiamo pensato fosse un suicidio, dato che era chiuso a chiave nel garage ma, come puoi notare, la canna del fucile è troppo lunga per aver fatto tutto da solo. L'ha ucciso qualcuno”.
Harry cominciò a guardarsi intorno per capire se ci fosse qualche prova. Insoddisfatto, uscì dal garage e notò che dietro la casa c'era lo stesso identico pupazzo di neve rinvenuto nei precedenti omicidi. Il killer fantasma aveva colpito ancora.
Pochi giorni dopo venne accertato dal medico legale che il caso dell'uomo era un omicidio.
Lo stesso giorno gli arrivò la telefonata della moglie dicendogli che era arrivata a Stoccolma e che si era sistemata nella loro vecchia casa. L'uomo si diresse verso casa pronto ad accogliere la moglie; bussò alla porta, ma nessuno aprì; andò a cercarla sul retro della casa ma non la trovò. Così, pensando che fosse uscita tornò al lavoro...ma non si accorse che ai piedi della porta c'era un biglietto e accanto un pupazzo di neve...
Quando, verso sera, stava per arrivare a casa, decise di chiamare sua moglie; ma non rispose. Arrivato davanti all'abitazione, entrò, provò a chiamare sul cellulare la moglie nel caso non fosse ancora rientrata, ma in lontananza sentì solo l'eco della suoneria che rimbombava per tutto il corridoio, e nessuno rispondeva; così, un po' spaventato, corse su per le scale diretto al piano superiore e, con suo stupore, trovò il telefono di lei attaccato con lo scotch al muro. Poi, un tonfo proveniente dallo scantinato...
Si precipitò giù per le scale con una velocità assurda.
Trovò sua moglie e suo figlio incoscienti, legati su due sedie e al collo un fil di ferro.
Alle loro spalle c'era una donna: tutta vestita di nero e con dei guanti, che subito attaccò: “Ciao Harry, ti stavamo aspettando. Vedi, ti ho seguito in questi giorni e devo dire che sei stato davvero ingenuo a non capire che ero stata io ad uccidere tutte quelle persone; quelle lì non meritavano di stare a questo mondo, i loro figli devono capire quant'è brutto restare senza una madre, così com'è successo a noi, vero fratellino?”
A quelle parole Harry si scagliò addosso alla donna, ma era già troppo tardi: lei aveva tirato il fil di ferro verso di sé, sgozzando la moglie e il figlio dell'ispettore.
Almeno aveva ritrovato lo spietato snow killer.

mercoledì 29 maggio 2019

Testo libero - Chiara Z.


L’ULTIMO CASO

L’ispettore Brown viveva a Manhattan in una piccola abitazione fatta di legno costruita su due piani. L’ispettore disteso sul divano davanti al caminetto acceso si stava riscaldando bevendo una tazza di cioccolata calda. Fuori pioveva a dirotto e la nebbia circondava le case e l’aria era gelida. L’ispettore stava sorseggiando la sua cioccolata quando sentì vibrare il suo cellulare nella tasca dei jeans. Si sedette bene sul divano, pose la tazza sul tavolino di fronte a lui, tirò fuori dalla tasca il cellulare e rispose.
La signora White, una giovane signora, disse: ”Buon pomeriggio, signor ispettore, sono la vicina degli Smith, quei ricchi signori sulla quindicesima. L’ho chiamata perché è da qualche giorno che non vedo il signor Smith uscire, e sua moglie ieri sera è rientrata con un secchio di vernice gialla. L’ho trovato sospetto per il semplice fatto che, chi mai dipingerebbe  d’inverno con questa umidità? La vernice starebbe tantissimo ad asciugarsi.”
Mr. Brown rispose: ”Ha ragione signora, c’è qualcosa che non quadra. Le andrebbe bene di vederci domani mattina da lei verso le otto? Così mi racconta qualcosa in più su questa famiglia?”
La signora annuì e poi riattaccò.
La mattina seguente l’ispettore scese in cucina, si fece un caffè, prese il cappotto e l’ombrello e uscì di casa. Chiamò un taxi e arrivato sulla quindicesima pagò l’autista e scese dall’auto. Suonò il campanello di casa della signora White e gli aprì una donna sui quarant’anni, alta, mora, dagli occhi verdi e vestita con grazioso vestito blu cobalto.
L’ispettore entrò e si accomodò su una poltrona rossa davanti alla signora, che gli offrì del tè.
La signora incominciò a raccontare: "I signori Smith saranno sposati da circa dieci anni e sono molto ricchi, come può vedere guardando la villa. Non hanno figli, con loro c’è solo una governante di nome Peggy, sulla trentina. Il signor Smith in passato le aveva promesso un assegno, con quei soldi sarebbe potuta andarsene e tornare dalla sua famiglia in Messico. Diciamo anche che con quei soldi la sua famiglia non avrebbe più avuto problemi di povertà, lei non avrebbe più dovuto lavorare come governante. Solo che alla fine quel assegno non glielo diede”.
“Ottimo movente per un presunto omicidio.” disse il signor Brown.
La signora White rispose: ”Infatti, e credo proprio che il signor Smith sia stato ucciso, non era troppo simpatico. Trattava la moglie come se fosse un cane, spesso sentivo le sue urla. Non so perché si siano sposati, tra quei due c’è solo odio e rabbia.”
L’ispettore Brown disse: ”Ecco un’altra sospettata, cosa mi sa dire sul suo conto?”.
La signora rispose: ”Quando era più giovane lavorava nell’industria elettrica di suo padre. Io e lei andiamo d’accordo, è una signora simpatica, non biasimerei nessuna delle due se avessero ucciso il signor Smith”.
Finita la chiacchierata con la vicina, l’ispettore decise di andare a far visita alla signora Smith.
La signora Smith era una bella donna sulla quarantina alta e snella, aveva raccolto i capelli in uno chignon.  Lo accompagnò per la villa e gli fece vedere le varie stanze, nessun indizio del morto. La signora intanto disse: ”Comunque è inutile tutto questo, mio marito se ne andò una settimana fa e lasciò me e Peggy da sole”.
Infine la signora Smith gli fece vedere la camera da letto. Era ampia e spaziosa, con una grande finestra affacciata sul giardino. I muri erano color giallo sbiadito, tranne una piccola parte vicino alla porta che era di un giallo più acceso, sicuramente ritinteggiato da poco.
Scesero in cucina e la signora Smith gli offrì un caffè. L’ispettore però notò un comportamento sospetto. La signora quando aprì uno sportello contenente le tazzine da caffè si affrettò subito a chiuderlo come se volesse nascondere qualcosa.
Però il signor Brown riuscì a scorgere una boccetta e sull’etichetta scorse un teschio: veleno.
La signora Smith ancora prima che l’ispettore potesse dire qualcosa, lo liquidò velocemente e scortò fuori dalla porta e gliela sbattè in faccia.
L’ispettore tornò così a casa, si sedette sul divano e cominciò a pensare a tutte le informazioni ricevute e alle scoperte di quel giorno.
Ormai era ora di pranzo, così si fece un panino e dopo corse in commissariato. Chiese a tre poliziotti di seguirlo perché aveva bisogno di aiuto: doveva tornare a casa Smith e trovare il corpo del signor Smith.
Arrivati, bussarono forte alla porta che gli venne aperta dalla signora Smith, che con indifferenza accompagnò i tre poliziotti in camera da letto e gli offrì del caffè che accettarono volentieri.
Sembrava troppo tranquilla, troppo indifferente per una situazione del genere, strano, davvero strano.
L’ispettore si mise a parlare e la signora gli offrì un po’ d’acqua.
E si mise in tasca uno strofinaccio.
Mr. Brown disse: ”Sa, non credo proprio che berrò quest’acqua. L’ha avvelenata col tallio, un veleno incolore, inodore, e insapore ed efficacissimo. Si muore. E’ così che ha ucciso suo marito immagino. Col veleno che ha nella boccetta vicino alle tazzine da caffè”.
La signora rispose: ”Ma bravo ispettore, vedo che è un buon osservatore. Mio marito mi trattava male, come se fossi spazzatura. Non ne potevo più di farmi mettere sotto i piedi da un inutile uomo. Così decisi qualche giorno fa di fargli una cenetta romantica, era tutto pronto: cibo di alta qualità, luce soffusa e rose sparse per la stanza. Versai nel vino il veleno e lui lo bevve con gusto. Il veleno iniziò a fare effetto e poi cadde dalla sedia morto. Ero fiera del mio lavoro, ma non era finta qui. Spaccai il muro della camera da letto e lo murai dentro, lo chiusi con del cartongesso, poi ritinteggiai”.
L’ispettore rispose: ”Ottimo, ora che ha confessato non resta che portarla via subito dopo aver trovato il corpo. Ma mi tolga una curiosità, dove ha trovato il tallio?”.
“Lavoravo in un’industria elettrica e lì ce n’era in gran quantità. Comunque è giunta la sua ora signor Brown”.
“Anche se mi ucciderà ci saranno gli altri poliziotti che, trovato il corpo, l’arresteranno”. Disse l’ispettore.
“Mi dispiace contraddirla ispettore, ma in quel caffè c’ho messo del tallio, non potevo rischiare che trovassero il corpo. Ora i loro corpi saranno stesi sul pavimento con gli occhi vitrei, nessuno saprà mai nulla”.
“E Peggy?” chiese l’ispettore.
“Oh, di lei ho avuto pietà, le ho dato quel tanto promesso assegno, se ne è andata in Messico, non dirà una parola”.
“Vedo che ha pensato a tutto, devo ammettere che è stata davvero attenta a tutto”.
“E’ inutile che temporeggi ispettore Brown. La ucciderò comunque, non c’è via di scampo”.
L’ispettore iniziò a sudare freddo, corse per la casa, ma ad un certo punto si trovò davanti ad una porta chiusa: era in trappola!
La signora Smith arrivò da dietro, tirò fuori lo strofinaccio dalla tasca e lo mise intorno al collo dell’ispettore e strinse, strinse quando il signor Brown urlò: era un urlo agghiacciante, un po’ soffocato, si sentiva il dolore di quel pover'uomo: la sua fine era giunta.
Il corpo cadde a terra con un tonfo sordo, con gli occhi vitrei, bagnati dalle lacrime. Il collo era rosso, dal naso non usciva più aria. La luce dei suoi occhi, la vita dal suo corpo se n’erano andate.