giovedì 22 agosto 2019

Ho ucciso la scuola...

...e stiamo cercando di rianimarla


Esattamente un anno fa, seduto nello stesso luogo (ammesso che i luoghi non cambino), scrivevo il primo post di questo blog. Ricordo bene quel momento: un po’ di ingenuità e un po’ di entusiasmo. L’anno scolastico appena passato è stato il migliore che io ricordi. Mai così tante avventure, imprevisti, nuove conoscenze. Tanto che a ripensarci mi nasce la voglia di chiarire (a me prima di tutto) come sia accaduto. Si potrà pensare ad una attenta programmazione, obiettivi chiari, fare energico e decisivo; ma non è nulla di tutto ciò. Già in quel primo post, incredibilmente (ma poi non tanto), c’è in una frase tutto quello che vorrei cercare di chiarire in questo momento: so che dobbiamo smetterla di aspettarci che tutto sia già bello e pronto...le cose belle vanno costruite e scoperte assieme.
Le letture estive, una in particolare, mi hanno rafforzato in questa convinzione, che allora era poco più che un’intuizione. Dunque, contro la programmazione, certo, ma vorrei spiegarmi. Non voglio qui scrivere il manifesto dell’ingenuità didattica, del tipo “entriamo in classe e vediamo cosa succede”, voglio invece chiarire a me stesso la necessità estrema di demolire alcune certezze scolastiche, senza ricostruirne altre, beninteso. Da quando insegno, a intervalli più o meno regolari, ho da sempre provato una sorta di disagio, quasi di disgusto, una sensazione fisica e, proprio perché fisica, espressione di un bisogno (mio) reale, impossibile alla lunga da scartare o dimenticare, pena la perdita del senso di quello che faccio. Cos’è questa sensazione? O meglio da dove arriva? Io sento chiaramente, sarò in questo predisposto, non tanto l’inutilità, che sarebbe ben poca cosa, ma proprio il carattere osceno, perché meccanico e disanimato, di tante pratiche scolastiche. Tutti lo sanno. La scuola è morta, e anche io ho contribuito ad ucciderla, sia chiaro (da qui il disgusto). La scuola muore ogni volta che ripete tecniche e linguaggi della dis-animazione che è la cifra dell’attualità. Non c’è salvezza, non si creda salvo chi parla di pace e tolleranza, e soprattutto chi parla troppo, non è questione di contenuti. La scuola muore ogni volta che pensa allo studente come un mezzo per creare il fine che è l’adulto; ogni volta che crede di preparare alla vita, non capendo che la scuola dovrebbe essere la vita.

“E’ tempo di invertire la tendenza destrumentalizzando il rapporto fra educazione e conoscenza; preoccupandosi meno del futuro dei propri studenti e più della qualità del presente e del tempo ora, in quella situazione in cui un incontro con quello studente che viene a scuola può o non può avvenire”
Attesi imprevisti – Paolo Perticari

La scuola muore ogni volta che un insegnante crede di trasmettere dei contenuti e imposta la sua professione come una trasmissione da/a, secondo la nota e antica metafora dell’imbuto (io non ho ancora trovato una feritoia nel cranio degli alunni dove infilare con precisione questo imbuto che servirebbe a riversare la nostra sapienza…). Ma nemmeno la metafora del giardinaggio, che una volta sposavo e assaporavo come vera, non mi convince più, almeno non completamente. L’alunno come pianta da innaffiare, da disporre in un terreno adatto, da riparare dal sole per garantirgli il suo sviluppo. Certo, qui spirano venti più liberi, ma in fondo la vita della pianta è nelle mani del giardiniere, la sua forma nelle sue forbici…Comunque sia, sono metafore.
La scuola è morta. Tutti lo percepiscono, lo hanno vissuto, forse alcuni lo sanno davvero, ma pochi lo dicono (bisognerebbe urlarlo). Non si dice, perché dirlo imporrebbe una ricostruzione non solo della scuola, ma proprio del nostro essere nel mondo. Perché la morte della scuola è un aspetto di un problema ben più ampio, di una questione che può essere affrontata solo filosoficamente (non vi spaventi l’idea, parlo di filosofia vera, che equivale a dire parlo della vita).

“La medicina fa ammalare, i trasporti immobilizzano, la comunicazione fa sì che non si riesca a mettere nulla in comune, la scuola istupidisce. Le troppe informazioni disorientano; l’accumulo di consumi personalizzati fa perdere il tratto caratteristico della personalità individuale; l’accelerazione del ritmo della vita ammazza il tempo e i tempi di ognuno; nessuno ha più tempo per nessuno”
Attesi imprevisti – Paolo Perticari


E io aggiungerei che l’iperconnessione genera solitudine, non quella fondamentale del raccoglimento, ma quella angosciata dal desiderio di relazione.
Sia chiaro, proprio perché ho a cuore la scuola voglio parlare chiaramente della sua morte. Perché in tutto questo disastro del contemporaneo, vorrei una scuola capace di essere eretica, folle, rivoluzionaria, perché solo così può riacquistare un senso. Non c’è alcun tratto politico (nell’accezione banale del termine) nel mio discorso. Chiunque senta le parole di Perticari come vere, è chiamato a chiedersi cosa sta facendo, in qualunque ambito.
Allora ecco perché scrivo contro la programmazione (non in assoluto, ma contro la programmazione come viene normalmente intesa a scuola). Quando va bene, si tratta di compilare e dimenticare. Quando va male, ossia quando si crede eccessivamente nella possibilità di poter programmare, il programma si trasforma in un idolo a cui sacrificare ogni cosa, in primo luogo il tempo: accade così che invece di dedicare il tempo agli alunni lo si dedichi al programma nella convinzione che i due elementi siano sovrapponibili. Ma c’è altro, ed è più importante. L’ansia di programmare, di prevedere, di prestabilire, non può che sottrarci umanità, perché sottrae la possibilità, intendo lo spazio temporale, per accettare l’imprevisto, per accogliere l’errore, per ascoltare chi ci sta davanti. Ecco quindi un proposito (non un programma…) per l’anno che arriva: abbiamo tempo! Perché solo nella consapevolezza di avere tempo può accadere qualcosa di utile in aula. Cos’è utile, chiederete. Beh, al contrario di ciò che si pensa è non solo utile ma fondamentale la conversazione: detta così, la vedo qui scritta, sembra una banalità, ma in classe abbiamo così paura di conversare (perché non c’è tempo...o perché abbiamo paura) che non sappiamo più come si fa, ma soprattutto non capiamo più a cosa possa servire (qui la scuola muore, qui ripete l’orrido del disastro della modernità). Ogni volta che giudichiamo (come banali, scorrette, fuori argomento ecc.) le idee espresse dai nostri alunni in quei brevi momenti di conversazione che permettiamo, stiamo uccidendo la possibilità che accada qualcosa. Altro proposito: imparare con gli alunni a conversare, ad ascoltare senza giudicare, ad attendere.

“I beni più preziosi non devono essere cercati, ma attesi” Simone Weil

“L’insegnamento, come l’apprendimento, non accade nell’andare di corsa, semmai nel rallentare, nella lentezza, talvolta nella fatica che caratterizza questo rallentamento e il suo ripetersi nel tempo”
Attesi imprevisti – Paolo Perticari

I libri più intensi sono quelli che ti descrivono senza conoscerti. Ed è quello che mi è accaduto con il testo del filosofo Perticari. Non so spiegarvi, ma so dirvi però che quando leggete qualcosa che vi descrive, la sensazione è prima di tutto corporea, non intellettuale. Una sorta di liberazione fisica nel leggere pagine che si scagliano, ma sempre con una sorta di gentilezza, contro la possibilità e la necessità di un approccio scientifico ai temi dell’educazione e della didattica. E’ ora di finirla con l’idea di poter quantificare e prevedere e giudicare tutto. Perché ogni qual volta si applica questo principio all’educazione, ovvero ad esseri umani nel pieno del loro sviluppo, non si fa altro che ucciderne l’umanità. Non voglio usare toni apocalittici per sconvolgere, questo è l’unico modo che possiedo per spiegarmi. L’umanità, il senso dell’umanità, risiede nel mistero, in quello spazio eternamente vuoto che il tempo della vita di ogni singolo uomo ha il compito di costruire. Se pensiamo che ogni cosa che accade nella relazione educativa sia misurabile, stiamo misurando quello spazio, il che equivale a dire che lo stiamo riducendo, stiamo iniziando esattamente il disastro della contemporaneità, cioè la riduzione della dimensione verticale dell’uomo, per appiattirlo, per renderlo mezzo e non più fine.

“Più sono radicate certe idee di programma scolastico e di scientificità (e anche le idee di più alto profilo contengono questo rischio), più possono portare alla non-accettazione della sorpresa. In questo caso ogni imprevisto, ogni sorpresa, ogni scarto, è considerato un errore […]. La possibilità di sbagliare, invece, è un indicatore della qualità educativa di un’esperienza. Se non si può sbagliare vuol dire che c’è qualcosa che non va.”
Attesi imprevisti – Paolo Perticari

Ecco allora un altro piccolo proposito: amare l’errore. Perché in esso c’è un percorso cognitivo, perché l’errore è una finestra aperta sulla stanza che ci interessa di più. Ogni volta che lo sottovalutiamo in maniera sbrigativa o lo condanniamo, o peggio lo stigmatizziamo, ci stiamo impedendo la possibilità di capire come ragiona quell’alunno.

La prospettiva andrebbe quindi rovesciata (oggi la forza di un’idea sta nel suo potenziale eretico): non sono gli alunni i primi a dover stare attenti, siamo noi. L’attenzione è parte integrante della capacità di attendere, ed è quella facoltà fondamentale che permette di aprire uno spazio in cui qualcosa possa davvero accadere. Non si tratta dell’attenzione intesa come sforzo, come ricerca, come tentativo di captare, no, tutt’altro, l’attenzione più feconda è un’attesa attiva (simile in sostanza alla preghiera). Ma perché il docente ha bisogno estremo di questa attenzione? Per cogliere l’altro, per capirlo, per accoglierlo, per imparare da lui (altro ribaltamento). Come potrà mai accadere tutto ciò se siamo impegnati soltanto a concludere il programma? Fosse anche quello che avevamo programmato per quella singola ora. Capite? Il miracolo garantito dall’attenzione

“è la riconciliazione non precipitosa con quello che succede davvero all’interno dell’esperienza in cui viviamo durante il suo ripetersi nel tempo. Il miracolo di cui si parla non potrà mai essere programmato. E’ piuttosto un atteso imprevisto
Attesi imprevisti – Paolo Perticari

Mi fermo e rileggo. Sono andato veloce, concitato come al solito quando parlo di qualcosa che mi appassiona. Non importa, ho scritto per me. Tanto altro ci sarebbe. Ma insomma, forse adesso capite perché in quella frase scritta ingenuamente un anno fa c’era già tutto questo mio intendimento: so che dobbiamo smetterla di aspettarci che tutto sia già bello e pronto...le cose belle vanno costruite e scoperte assieme.
Ora abbiamo di fronte un nuovo anno scolastico (tutto vuoto!! evviva!!). Non ho programmi particolari, ho tante idee e qualche convinzione, e sono pronto a cambiarle. Sono pronto anche a rischiare. C’è un senso da ritrovare. C’è un intero quaderno da riempire. 

“Mi spaventa questa didattica attuale propugnata in tutte le salse sulle riviste patinate dirette dai più autorevoli pedagogisti per insegnanti che sanno dire di tutto, anche di ecologia, anche della necessità di un nuovo impegno, anche del disastro, pur di non cambiare mai i comportamenti effettivi di fronte alle situazioni di disagio che si presentano, pur di non arrivare a chiamare in causa il proprio sguardo su quel che succede. Mi sembra l’inizio di un essere umano incapace di tornare a essere sé stesso quando le circostanze lo mettono di fronte a una persona che è stata come lui vittima della sorte. Allora non si tratta di dire se è meglio la programmazione per obiettivi o la programmazione individualizzata; ma di trovare un senso in quello che si sta facendo, facendosi sorprendere da quello che si sta facendo, nel programma che si è costruito, e ancor di più in quel processo di apprendimento/insegnamento che si sta vivendo”
Attesi imprevisti – Paolo Perticari

1 commento:

  1. Purtroppo a morire non è solo la scuola,ma è il sistema in generale....ma essere fiduciosi,sperare in un futuro migliore, è ciò che ci salva... fortunatamente ci sono professori che ancora ci credono e i nostri ragazzi sono la nostra speranza...ringraziare chi ci mette il proprio cuore è doveroso,quindi grazie,grazie per tutte le attenzioni che ai nostri figli vengono date...grazie di cuore e buon inizio d'anno,a chi incomincia questo nuovo percorso,a chi "sta nel mezzo"e a chi lo terminerà!

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