...e stiamo cercando di rianimarla
Esattamente un anno fa, seduto
nello stesso luogo (ammesso che i luoghi non cambino), scrivevo il primo post
di questo blog. Ricordo bene quel momento: un po’ di ingenuità e un po’ di
entusiasmo. L’anno scolastico appena passato è stato il migliore che io
ricordi. Mai così tante avventure, imprevisti, nuove conoscenze. Tanto che a
ripensarci mi nasce la voglia di chiarire (a me prima di tutto) come sia
accaduto. Si potrà pensare ad una attenta programmazione, obiettivi chiari, fare energico
e decisivo; ma non è nulla di tutto ciò. Già in quel primo post, incredibilmente
(ma poi non tanto), c’è in una frase tutto quello che vorrei cercare di
chiarire in questo momento: so che dobbiamo
smetterla di aspettarci che tutto sia già bello e pronto...le cose belle vanno
costruite e scoperte assieme.
Le letture estive,
una in particolare, mi hanno rafforzato in questa convinzione, che allora era
poco più che un’intuizione. Dunque, contro la programmazione, certo, ma vorrei
spiegarmi. Non voglio qui scrivere il manifesto dell’ingenuità didattica, del
tipo “entriamo in classe e vediamo cosa succede”, voglio invece chiarire a me
stesso la necessità estrema di demolire alcune certezze scolastiche, senza
ricostruirne altre, beninteso. Da quando insegno, a intervalli più o meno
regolari, ho da sempre provato una sorta di disagio, quasi di disgusto, una
sensazione fisica e, proprio perché fisica, espressione di un bisogno (mio)
reale, impossibile alla lunga da scartare o dimenticare, pena la perdita del
senso di quello che faccio. Cos’è questa sensazione? O meglio da dove arriva?
Io sento chiaramente, sarò in questo predisposto, non tanto l’inutilità, che
sarebbe ben poca cosa, ma proprio il carattere osceno, perché meccanico e
disanimato, di tante pratiche scolastiche. Tutti lo sanno. La scuola è morta, e
anche io ho contribuito ad ucciderla, sia chiaro (da qui il disgusto). La scuola
muore ogni volta che ripete tecniche e linguaggi
della dis-animazione che è la cifra dell’attualità. Non c’è salvezza, non si
creda salvo chi parla di pace e tolleranza, e soprattutto chi parla troppo, non
è questione di contenuti. La scuola muore ogni volta che pensa allo studente
come un mezzo per creare il fine che è l’adulto; ogni volta che crede di
preparare alla vita, non capendo che la scuola dovrebbe essere la vita.
“E’ tempo di
invertire la tendenza destrumentalizzando il rapporto fra educazione e
conoscenza; preoccupandosi meno del futuro dei propri studenti e più della
qualità del presente e del tempo ora, in quella situazione in cui un incontro
con quello studente che viene a scuola può o non può avvenire”
Attesi imprevisti – Paolo Perticari
La scuola muore ogni
volta che un insegnante crede di trasmettere dei contenuti e imposta la sua
professione come una trasmissione da/a, secondo la nota e antica metafora dell’imbuto
(io non ho ancora trovato una feritoia nel cranio degli alunni dove infilare con
precisione questo imbuto che servirebbe a riversare la nostra sapienza…).
Ma nemmeno la metafora del giardinaggio, che una volta sposavo e assaporavo
come vera, non mi convince più, almeno non completamente. L’alunno come pianta
da innaffiare, da disporre in un terreno adatto, da riparare dal sole per
garantirgli il suo sviluppo. Certo, qui spirano venti più liberi, ma in
fondo la vita della pianta è nelle mani del giardiniere, la sua forma nelle sue
forbici…Comunque sia, sono metafore.
La scuola è morta.
Tutti lo percepiscono, lo hanno vissuto, forse alcuni lo sanno davvero, ma pochi
lo dicono (bisognerebbe urlarlo). Non si dice, perché dirlo imporrebbe una
ricostruzione non solo della scuola, ma proprio del nostro essere nel mondo. Perché
la morte della scuola è un aspetto di un problema ben più ampio, di una questione
che può essere affrontata solo filosoficamente (non vi spaventi l’idea, parlo
di filosofia vera, che equivale a dire parlo della vita).
“La medicina fa
ammalare, i trasporti immobilizzano, la comunicazione fa sì che non si riesca a
mettere nulla in comune, la scuola istupidisce. Le troppe informazioni
disorientano; l’accumulo di consumi personalizzati fa perdere il tratto
caratteristico della personalità individuale; l’accelerazione del ritmo della
vita ammazza il tempo e i tempi di ognuno; nessuno ha più tempo per nessuno”
Attesi imprevisti – Paolo Perticari
E io aggiungerei che
l’iperconnessione genera solitudine, non quella fondamentale del raccoglimento,
ma quella angosciata dal desiderio di relazione.
Sia chiaro, proprio perché
ho a cuore la scuola voglio parlare chiaramente della sua morte. Perché in
tutto questo disastro del contemporaneo, vorrei una scuola capace di essere eretica,
folle, rivoluzionaria, perché solo così può riacquistare un senso. Non c’è
alcun tratto politico (nell’accezione banale del termine) nel mio discorso. Chiunque
senta le parole di Perticari come vere, è chiamato a chiedersi cosa sta
facendo, in qualunque ambito.
Allora ecco perché scrivo
contro la programmazione (non in assoluto, ma contro la programmazione come
viene normalmente intesa a scuola). Quando va bene, si tratta di compilare e
dimenticare. Quando va male, ossia quando si crede eccessivamente nella possibilità di poter programmare,
il programma si trasforma in un idolo a cui sacrificare ogni cosa, in primo
luogo il tempo: accade così che invece di dedicare il tempo agli alunni lo si
dedichi al programma nella convinzione che i due elementi siano sovrapponibili.
Ma c’è altro, ed è più importante. L’ansia di programmare, di prevedere, di
prestabilire, non può che sottrarci umanità, perché sottrae la possibilità,
intendo lo spazio temporale, per accettare l’imprevisto, per accogliere l’errore,
per ascoltare chi ci sta davanti. Ecco quindi un proposito (non un programma…) per
l’anno che arriva: abbiamo tempo! Perché solo nella consapevolezza di
avere tempo può accadere qualcosa di utile in aula. Cos’è utile, chiederete. Beh,
al contrario di ciò che si pensa è non solo utile ma fondamentale la
conversazione: detta così, la vedo qui scritta, sembra una banalità, ma in
classe abbiamo così paura di conversare (perché non c’è tempo...o perché abbiamo
paura) che non sappiamo più come si fa, ma soprattutto non capiamo più a cosa
possa servire (qui la scuola muore, qui ripete l’orrido del disastro della
modernità). Ogni volta che giudichiamo (come banali, scorrette, fuori
argomento ecc.) le idee espresse dai nostri alunni in quei brevi momenti di
conversazione che permettiamo, stiamo uccidendo la possibilità che accada
qualcosa. Altro proposito: imparare con gli alunni a conversare, ad ascoltare
senza giudicare, ad attendere.
“I beni più preziosi
non devono essere cercati, ma attesi” Simone Weil
“L’insegnamento,
come l’apprendimento, non accade nell’andare di corsa, semmai nel rallentare,
nella lentezza, talvolta nella fatica che caratterizza questo rallentamento e
il suo ripetersi nel tempo”
Attesi imprevisti – Paolo Perticari
I libri più intensi sono
quelli che ti descrivono senza conoscerti. Ed è quello che mi è accaduto con il
testo del filosofo Perticari. Non so spiegarvi, ma so dirvi però che quando
leggete qualcosa che vi descrive, la sensazione è prima di tutto corporea, non
intellettuale. Una sorta di liberazione fisica nel leggere pagine che si scagliano,
ma sempre con una sorta di gentilezza, contro la possibilità e la necessità di un
approccio scientifico ai temi dell’educazione e della didattica. E’ ora di
finirla con l’idea di poter quantificare e prevedere e giudicare tutto. Perché ogni
qual volta si applica questo principio all’educazione, ovvero ad esseri umani
nel pieno del loro sviluppo, non si fa altro che ucciderne l’umanità. Non voglio
usare toni apocalittici per sconvolgere, questo è l’unico modo che possiedo per
spiegarmi. L’umanità, il senso dell’umanità, risiede nel mistero, in quello spazio
eternamente vuoto che il tempo della vita di ogni singolo uomo ha il compito di
costruire. Se pensiamo che ogni cosa che accade nella relazione educativa sia
misurabile, stiamo misurando quello spazio, il che equivale a dire che lo
stiamo riducendo, stiamo iniziando esattamente il disastro della contemporaneità,
cioè la riduzione della dimensione verticale dell’uomo, per appiattirlo, per renderlo
mezzo e non più fine.
“Più sono radicate
certe idee di programma scolastico e di scientificità (e anche le idee di più
alto profilo contengono questo rischio), più possono portare alla non-accettazione
della sorpresa. In questo caso ogni imprevisto, ogni sorpresa, ogni scarto, è
considerato un errore […]. La possibilità di sbagliare, invece, è un indicatore
della qualità educativa di un’esperienza. Se non si può sbagliare vuol dire che
c’è qualcosa che non va.”
Attesi imprevisti – Paolo Perticari
Attesi imprevisti – Paolo Perticari
Ecco allora un altro
piccolo proposito: amare l’errore. Perché in esso c’è un percorso
cognitivo, perché l’errore è una finestra aperta sulla stanza che ci interessa
di più. Ogni volta che lo sottovalutiamo in maniera sbrigativa o lo condanniamo,
o peggio lo stigmatizziamo, ci stiamo impedendo la possibilità di capire come
ragiona quell’alunno.
La prospettiva
andrebbe quindi rovesciata (oggi la forza di un’idea sta nel suo potenziale
eretico): non sono gli alunni i primi a dover stare attenti, siamo noi. L’attenzione
è parte integrante della capacità di attendere, ed è quella facoltà
fondamentale che permette di aprire uno spazio in cui qualcosa possa davvero
accadere. Non si tratta dell’attenzione intesa come sforzo, come ricerca, come
tentativo di captare, no, tutt’altro, l’attenzione più feconda è un’attesa
attiva (simile in sostanza alla preghiera). Ma perché il docente ha bisogno
estremo di questa attenzione? Per cogliere l’altro, per capirlo, per
accoglierlo, per imparare da lui (altro ribaltamento). Come potrà mai accadere
tutto ciò se siamo impegnati soltanto a concludere il programma? Fosse anche
quello che avevamo programmato per quella singola ora. Capite? Il miracolo garantito
dall’attenzione
“è la
riconciliazione non precipitosa con quello che succede davvero all’interno dell’esperienza
in cui viviamo durante il suo ripetersi nel tempo. Il miracolo di cui si parla
non potrà mai essere programmato. E’ piuttosto un atteso imprevisto”
Attesi imprevisti – Paolo Perticari
Mi fermo e rileggo.
Sono andato veloce, concitato come al solito quando parlo di qualcosa che mi
appassiona. Non importa, ho scritto per me. Tanto altro ci sarebbe. Ma insomma,
forse adesso capite perché in quella frase scritta ingenuamente un anno fa c’era
già tutto questo mio intendimento: so che dobbiamo smetterla di aspettarci
che tutto sia già bello e pronto...le cose belle vanno costruite e scoperte
assieme.
Ora abbiamo di
fronte un nuovo anno scolastico (tutto vuoto!! evviva!!). Non ho programmi
particolari, ho tante idee e qualche convinzione, e sono pronto a cambiarle.
Sono pronto anche a rischiare. C’è un senso da ritrovare. C’è un intero
quaderno da riempire.
“Mi spaventa questa
didattica attuale propugnata in tutte le salse sulle riviste patinate dirette
dai più autorevoli pedagogisti per insegnanti che sanno dire di tutto, anche di
ecologia, anche della necessità di un nuovo impegno, anche del disastro, pur di
non cambiare mai i comportamenti effettivi di fronte alle situazioni di disagio
che si presentano, pur di non arrivare a chiamare in causa il proprio sguardo
su quel che succede. Mi sembra l’inizio di un essere umano incapace di tornare
a essere sé stesso quando le circostanze lo mettono di fronte a una persona che
è stata come lui vittima della sorte. Allora non si tratta di dire se è meglio
la programmazione per obiettivi o la programmazione individualizzata; ma di
trovare un senso in quello che si sta facendo, facendosi sorprendere da quello
che si sta facendo, nel programma che si è costruito, e ancor di più in quel
processo di apprendimento/insegnamento che si sta vivendo”
Attesi imprevisti – Paolo Perticari