Ricordare non è solo conoscere o capire. Ricordare davvero, ricordare per non ripetere, significa anche provare, immaginare, immedesimarsi. Credo che certi eventi possiamo capirli davvero soltanto avvicinandoci alle emozioni provate da ogni singolo individuo. Ricordare (lo dice la sua etimologia) è "ripetere col cuore". Per questo, io e la prof. Franzil, oggi abbiamo provato a chiedere ai ragazzi di seconda e terza di cercare per un attimo di diventare uno di quei ragazzi, centinaia di migliaia, finiti nel meccanismo dei lager nazisti. Ma non uno qualunque, non uno di quei corpi ridotti alla propria essenza dove si fa fatica a cogliere lo sguardo di una persona, perchè - come diceva Primo Levi - era già stata spenta "in loro la scintilla divina". Gli abbiamo chiesto invece di essere Lei, Czeslawa Kwoka, una ragazzina polacca che arrivò ad Auschwitz a 14 anni e vi restò per i suoi ultimi tre mesi di vita. Chiedo anche a voi lettori di guardare bene questo volto: è come se il contrasto fra bellezza e orrore richiamasse da ogni parte di chi osserva un continuo e crescente sgomento.
Ma in classe non ho detto o spiegato nulla, solo questa foto alla Lim e questa consegna:
CZESLAWA KWOKA 1928-1943
Guarda la foto di questa ragazza. Concentrati. Immagina di
essere lei in quel momento e scrivi un breve testo in prima persona in cui
racconti quello che provi, quello che speri, la tua storia fino all’attimo
della foto o qualsiasi cosa ti venga in mente. Inizia con la parola Io
E' chiaro che tutti hanno subito collocato questa foto nel contesto dei lager, quindi l'immaginazione si è legata a quello che ognuno di loro già sapeva. Ecco le loro risposte, io le ho solo selezionate e ordinate. A metterle insieme farebbero una poesia.
Io sono
spaventata, molto spaventata, non capisco cosa succeda.
Io non so
cosa mi sia successo veramente.
Io provo
paura e dolore allo stesso momento.
In questo
posto valgo poco e niente. La mia identità è scomparsa, è come se non esistessi
sulla faccia della terra.
Mi hanno privata di me stessa, della mia femminilità.
Non ho
più un nome.
Stanno
cercando di toglierci l’unica cosa che ci rimane: il nostro essere persone.
Io, che
avevo vissuto in libertà, ora sono prigioniera, ora il mio nome è solo 26947.
Mi sto
rifiutando di piangere perché so che intanto non serve a niente e non mi
salverà la vita.
Io ho
vissuto una vita triste, senza sogni. La parola principale che si usava era “guerra”.
La guerra era in tutte le case come la paura di morire.
Pensavo
dove potessero essere i miei genitori, quelli che mi avevano curato con tanto
amore, quelli che mi davano la felicità, la mia amata famiglia.
Mi manca
tutto, la casa, il cane, il caldo, il piacere, ma solo una cosa mi manca
veramente: la famiglia
Io mi
sento male, quello che sto passando non è vita, e poi perché sono nata se devo
subire questo? Ho bisogno di affetto, di una persona per cui valga la pena
combattere. Sono distrutta, non so cosa fare, ormai non vale più la pena
piangere e credere che qualcuno possa salvarmi. Mi sento male, mi sento inutile
e anche se provo una rabbia immensa non posso esprimerla.
Io,
quanto vorrei io essere libera come gli altri, quanto spererei in una vita normale.
Qui, l’unica cosa che si possa fare è sperare, ma nella realtà è difficile.
Con il
passare del tempo diventai sempre più piena di botte e fragile, dentro di me
pensavo di potercela fare e l’unica cosa che mi spingeva a pensarlo era il
desiderio di rivedere la mia famiglia. Oggi ho 14 anni e li avrò per sempre.
Voglio
rinascere in una città dove non si deve indossare una camicia con un numero.
Nemmeno
quando sarò in paradiso sarò libera perché la mia anima resterà sempre intrappolata
in quei campi.
C'è stata una frase scritta oggi, che più di altre mi ha colpito: questa ragazza mi porta a una delusione per me stessa. Io non so cosa volesse dire quell'alunna davvero (poi sappiamo mai con certezza quello che ci vogliono dire gli altri?), ma ho sentito in quelle parole qualcosa che si avvicina molto a quello che sento io. Con la Shoah l'uomo ha deluso se stesso. Non saprei dirlo altrimenti con così poche parole. Poi in classe ci sono state altre immagini di orrore e altre parole, altre domande e spiegazioni e riflessioni, ma qui a che serve aggiungere qualcosa? Mi sa che oggi qualcuno ha davvero ripetuto col cuore, ha davvero ricordato. Ecco le parole di Wilhelm Brasse, il prigioniero fotografo di Auschwitz che scattò quelle foto "Era così giovane e così terrorizzata. La ragazza non capiva perché fosse lì e non capiva cosa le stessero dicendo.Allora una donna Kapo prese un bastone e la colpì in faccia. Quella donna tedesca stava solo sfogando la sua rabbia contro la ragazza. Una ragazza così bella, così innocente. Lei pianse, ma non poté fare nulla.Prima che la fotografia fosse scattata, la ragazza si asciugò le lacrime e il sangue dal taglio sul labbro. A dire la verità, mi sentivo come se fossi stato colpito io stesso, ma non potevo intromettermi. Sarebbe stato fatale per me. Non potevi dire assolutamente nulla."
Finalmente si fa entrare un po' di atteggiamento scientifico in questo blog ormai infettato dall'umanesimo..."Sto paese ha estremo bisogno di cultura scientifica! di quella umanistica ce n'è già abbastanza" parola di un prof. di lettere
Gennaio 2021
Ci risiamo…anche quest’anno si inizia dallo studio di ciò che risulta molto piccolo,
dunque difficile da immaginare. Aggiungiamo il fatto che il laboratorio di scienze è «off
limits» per le misure sanitarie…
Bene, non resta che usare la fantasia e del materiale che si trova in casa.
Mi sono stupita di come la buona volontà dei ragazzi non sia mai ripetitiva e dia forma
a modelli davvero simpatici.
Ho pensato di aggiungerli all’album dei ricordi… forse quando arriveremo in terza ci
farà piacere rivedere i nostri piccoli grandi lavori.
Per tutti i miei complimenti!
L'autore di questo morbidissimo procariote assicura che nessun pelouche è stato maltrattato per la realizzazione
Ho scritto nel mio diario di scuola una pagina che forse merita il blog
Sabato, a scuola, ci siamo solo
noi, Orietta o Luigino, io, e la mia classe. Con il solito terrore ho preparato
una lezione sulla poesia di guerra, per poi passare ai classici di Ungaretti.
Terrore che deriva dalla paura di allontanarli da quella che ritengo essere la
cosa più bella. Parto dalle sensazioni, leggo tre poesie e gli chiedo di
scrivere quale immagine o emozione gli rimane: Sul Kobilek di Soffici, Prendemmo
la città dopo un intenso bombardamento di Pessoa e L’addormentato nella
valle di Rimbaud.
Alla parola “poesia” partono i
prevedibili mugugni ma poi il clima si fa più interessato, c’è quella sottile
sensazione di fare qualcosa assieme. Tutto nasce, al solito, da “un
errore”. Qualcuno vede nel trenino abbandonato della poesia di Pessoa, un treno
vero e proprio. Io dico che non importa, che è meglio aver immaginato qualcosa
che non c’è, piuttosto che non immaginare nulla. Di contro, Emma mi dice di no,
prova a spiegare meglio, secondo lei bisogna capire bene, perché il messaggio è
uno solo, è preciso; lei non usa il termine inequivocabile ma è quello
che vuol dire. Io cerco di inserire un diverso punto di vista, con un po’ di
ingenuità appassionata, le dico che non c’è un messaggio chiaro, che di fronte
a una poesia ci possono essere 21 (siamo in 21) emozioni diverse, lei dice di
no, mi concede questa possibilità di fronte a un quadro, ma non per una poesia.
Porto avanti la discussione anche
se non era questo il programma. Capisco il ragionamento, è il classico problema
della parola, crediamo che esista solo la sua dimensione funzionale, che voglia
dire solo una e una cosa sola, mentre il disegno ovviamente lo sentiamo sempre più
libero. Questo, ma anche altro, ovvero il fatto che la creazione artistica
abbia un significato preciso per chi la fa e quindi chi la legge o la guarda
abbia il compito (quasi il dovere?) di comprenderlo. (Sì, stiamo davvero parlando di queste cose). Emma tiene il punto, ma mi
concede il fatto che io possa provare una mia emozione e/o tentare una mia personale
comprensione; dopo però devo cercare di capire cosa ha veramente voluto dire il
poeta. Ma guardate che spesso nemmeno l’artista sa con precisione cosa vuol
dire. Mi guardano perplessi. C’è un’intervista ad Ungaretti che sembra
fatta apposta per approfondire il discorso e allora: Youtube. Il giornalista in
sostanza chiede (e la domanda è perfettamente ingenua) a Ungaretti, come fa a
scrivere poesie, come accade. Ungaretti non sa cosa dire, nel vero senso della
parola. Inizia incerto con un lungo mah e poi aggiunge frasi del tipo
non pensandoci, accade, non saprei. Dico alla classe, vedete,
nemmeno lui sa come accade.
A questo punto, qualcuno più attento di me prorompe
in un giustificato e traboccante di significato: ma allora cosa ci stiamo a
fare qui? Cioè, se l’opera d’arte non va contestualizzata storicamente,
perché nemmeno l’artista sa da dove viene, e il messaggio non è poi così
preciso, noi cosa ci stiamo a fare a scuola? (Lei intendeva questo, ma la
realtà sottesa è che la domanda presuppone un’idea di scuola come istruzione e
si riduce a quel perché impariamo? che se analizzato a fondo tradisce, dal mio punto di vista, la
sua natura di accusa fatale...ma lasciamo stare...)
La domanda è legittima, mi accorgo
in un attimo che tutto il mio entusiasmo infantile per la fruizione ingenua
della poesia ha messo in dubbio quello che per loro è il ruolo stesso della
scuola. Allora, come punto nella parte più scoperta, faccio un passo indietro e
torno sui binari: hai ragione, la domanda è giustissima, possiamo avvicinarci
alla poesia senza conoscere nulla, ma poi per affinare la nostra comprensione
serve lo studio, servono le conoscenze storiche e letterarie. Mi salvo
così.
Passiamo a Veglia. La leggo
e basta. E gli chiedo di scrivere quello che pensano. Emma non perde
l’occasione di ribadire il suo punto di vista: vede, questa è chiara, così
mi piacciono.
Qualcuno mi dice che il poeta
prima non amava la vita, un altro che addirittura pensava al suicidio. Io
onestamente non capisco, gli chiedo dove hanno letto tutto ciò. Loro insistono.
E’ nell’ultima strofa, quel mai stato tanto. Non avevo mai letto quella
parte in questo modo, forse è colpa mia o forse nemmeno le poesie scritte in
trincea sono così univoche come sembrano...
Due giorni fa gli avevo chiesto: come
può essere una poesia scritta in guerra? Era uscito un fantastico senza
parole. Lo riprendo e gli faccio notare la caratteristica scarnificazione
delle poesie dell’Allegria. Ho portato un’edizione Einaudi e gliela mostro, gli
chiedo il motivo di tutto quel bianco. E anche qui esce un inaspettato è il
tempo, chiedo spiegazione, sono interessato, non l’ho mai vista in questo
modo, Matteo mi dice che è il tempo prima di scrivere. (Sì, stiamo davvero parlando di questo)
Finisce con qualcuno che esclama, che
bello scrivere poesie così corte! Io non indugio e ne approfitto e scrivetele
dai, provateci! Ecco quello che volevo dire, non abbiate paura dell’arte e
della poesia perché “non la capite” o “bisogna studiarla”. Volevo dire questo.
Manca pochissimo alla campanella,
vedo qualcuno che scribacchia su un foglietto e mi avvicino. E’ successo
ancora, alla fine di una lezione sulla poesia, è nata una poesia. Passa una
settimana, e torna il nostro sabato: ho chiesto di scrivere una poesia imitando
lo stile di Ungaretti e le poesie si moltiplicano. Approfitto per modificarle
un po' assieme a loro, per far vedere che l’arte non è quasi mai l’espressione
istantanea del genio, ma è anche lavorio, conoscenza tecnica, quasi artigianale.
E Mozart? Mi tocca concederglielo…Mozart in effetti non correggeva nulla…Beethoven
però sì.
L'universo rimpiange
la solitudine
un po' come ognuno dentro di noi.
Nello spazio ci sono infiniti
pianeti
ma non il nostro tempo su di essi.
Il sole rosso
come il tramonto,
la rosa rossa,
come la sera.
Il vento
è come un'emozione
ti travolge
facendoti
sentire libero
da tutto.
Il vento
del mattino, un'aria
che accarezza
la fragile pelle.
Il vento.
Con un piccolo movimento
sotto il grigio il nero
lo sporco e qualche schiavo
trovato dal cielo rosato
della stella.
Siamo solo
gocce
di niente
in un mare
di tutto.
Un gabbiano
che vola sul mare
è felice
come un uomo
in pace con se stesso.
La luna bianca
come il latte
il mare azzurro
come il cielo
le strade vuote
come il mio cuore
che cerca
il sonno nella notte.
Noi siamo
quello che
la gente
vuole
che siamo.
Ritorno
dalla mia vera paura
la morte
ritorno
dal mio unico amore
la famiglia
ritorno
dalla mia emozione più grande
la guerra.
La vera felicità
sta nel selfie
di uno sconosciuto
che ti ha per sbaglio
ripreso
in un istante.
Piove.
Le foglie
stufe cadono
e la luce scompare
dietro quelle nuvole
nere
che contengono
la guerra.
Ero solo al buio
e senza via d'uscita
quando una stella
mi colpì.
I poeti hanno già scritto tutto
io non voglio rovinare
con le parole
ciò che si può dire
in silenzio
Ecco, siamo sicuri che abbiano già
scritto tutto? A volte credo di sì, poi i ragazzi mi smentiscono.